sabato 29 marzo 2014

Per la Sicilia. Autonomia e protagonismo dell'isola in una Europa diversa

Sono intervenuto alla manifestazione autonomista “Per la Sicilia” svoltasi il 26 marzo a Palermo nella Sala Rossa del Palazzo dei Normanni, e da subito ho sottolineato che,  alla vigilia delle elezioni europee e del semestre di presidenza italiana dell’Unione ci si accorge, tardivamente invero, che non aver compreso la pervasività della dimensione europea e non aver compreso che l’Italia, così com’è, non è all’altezza di questa dimensione europea è stato un tragico errore.

 E’ giunto il momento dunque di ripensare questa duplice dimensione di inadeguatezza e rifondare in senso autenticamente europeista e autonomista la politica e la società in Europa.  

L’affermazione della scelta autonomista appare urgente nell’attuale difficile momento che il cammino dell’unificazione europea sta attraversando  e che induce a più di una riflessione tutti coloro che abbiano a cuore le sorti del nostro continente.

Occorre così operare al di là degli schieramenti per costruire un’Europa autenticamente federale e solidale. Un’Europa all’interno della quale trovino, innanzi tutto, adeguato riconoscimento tutte le componenti culturali che hanno nei secoli concorso alla sua edificazione.

Non ci sta bene dunque un assetto che pretenda di guardare al futuro negando il passato.

Né riteniamo sufficiente lo spazio concesso alle realtà regionali all’interno dell’Europa così com’è.

Serve invece puntare a una decisa valorizzazione delle dimensioni territoriali. Anche all’interno degli Stati, la cui sovranità non può rappresentare uno schermo al riparo del quale edificare nuove strategie centraliste.

L’Unione europea dispone già, a partire da una corretta interpretazione del principio di sussidiarietà,  degli strumenti per una autentica regionalizzazione, promuovendo lo sviluppo delle aree bisognose di rinnovate strategie di coesione, ma deve essere indotta dalla pubblica opinione più avvertita a spingersi oltre in queste sue strategie, riconoscendo alla realtà regionali adeguato spazio e momento.

Bisogna  dunque avviare un serrato confronto con le istituzioni comunitarie, consapevoli della alterità dialettica delle posizioni e degli interessi, perché   affermare il valore dell’autonomia significa scegliere una consapevole assunzione di responsabilità dal basso, attraverso l’impegno di forze regionali che sappiano fare del loro radicamento territoriale il punto di forza di una nuova concezione della rappresentanza,  coniugando la partecipazione diretta con la visione globale dei problemi.




Oltre Questa Europa. Parte la Spring Term School sull'integrazione europea del Collegio d'Aragona

Mercoledì 19 marzo ho preso parte, con Fulvio Attinà e Matteo Negro, al primo seminario della Spring Term School del Collegio d'Aragona "Oltre Questa Europa". Qui di seguito la sintesi del mio intervento. 

Prendendo lo spunto dal titolo del ciclo di seminari, “Oltre Questa Europa”, Sapienza ha esordito affermando che per andare oltre questa Europa bisogna cominciare ad analizzarla e comprenderla non secondo gli schemi preconfezionati e propagandistici diffusi dall’Unione europea, ma per ciò che l’Europa è stata ed ancora è nella storia e nella cultura dei Paesi e delle genti che ne fanno parte.
L’Europa è stata ed ancora oggi è molto di più dell’Unione europea e del suo contorto percorso di cooperazione e integrazione. Tutto il pensiero politico europeo a partire dal seicento in poi è attraversato da progetti di Unione europea. Trecento anni fa, nel 1713, ad esempio, l’Abbé de Saint-Pierre aveva progettato una Unione tra gli Stati dell’Europa di allora e qualche anno dopo, nel 1799, Novalis parlava dell’Europa Unita come di qualcosa che era esistito nel Medioevo e che poteva ancora esistere, se il cattolicesimo che aveva ceduto il passo alla Rivoluzione protestante e alla Rivoluzione francese che avevano frammentato l’originaria unità  dell’Europa cristiana, avesse ripreso la sua centralità nella vicenda culturale europea.
Pensieri questi probabilmente non più attuali, ma che mostrano quanto ampio sia stato lo spettro delle tematiche abbracciate dall’ideale aspirazione verso l’unità europea e quanto invece ristretta, quasi asfittica, sia la prospettiva nella quale oggi ci si muove nell’ambito dell’attuale dinamica istituzionale che chiamiamo Unione europea.
Che si riduce, in fin dei conti, all’esistenza di un farraginoso apparato burocratico che mira, nella sostanza, a coordinare al meglio la cooperazione degli Stati (con la pretesa spesso enunciata, ma mai attuata, di guidarla) verso obiettivi di loro interesse comune (o comunque identificati come tali).
Riguardata con le categorie del diritto pubblico, che in sé rappresenta una delle più alte conquiste del pensiero europeo, essa peraltro non è uno Stato federale, né probabilmente vuole esserlo, forse è una Confederazione di Stati sovrani, forse ancora una via di mezzo tra le due forme di aggregazione.
Una cosa è certa e va detta subito: l’Unione europea  non è tutta l’Europa ed anzi non è nemmeno una Unione. E’ piuttosto un insieme di Unioni che marciano a diverse velocità a seconda della maggiore o minore volontà degli Stati di cooperare o integrare le proprie competenze in questa o quella materia.
In secondo luogo, va purtroppo riconosciuto, questo cammino di cooperazione verso l’integrazione, va avanti con particolare lentezza proprio in quelle tematiche che sarebbero di più diretto interesse per la gente comune.
La cittadinanza europea, ad esempio, nonostante le roboanti affermazioni che abbiamo sentito fino all’anno scorso, intitolato ufficialmente Anno dei cittadini europei, serve, se serve, a chi si muove da uno Stato all’altro, ma poco o nulla a chi rimane nel proprio Stato.
Nulla di significativo riesce a dire poi l’ Unione europea sull’assetto costituzionale all’interno degli Stati membri e sulla possibilità di cambiarlo, se non proporre da una parte vuoti proclami sull’Europa delle Regioni e dall’altra una politica di coesione ormai svilita al rango di mera strategia di complemento e di riequilibrio territoriale.
Nulla di significativo, ancora, riesce a dire sulla garanzia dei diritti, peraltro concretamente affidata a un sistema, quello della Corte di Strasburgo, esterno alla dinamica dell’Unione e al quale l’Unione non riesce ancora nemmeno ad aderire.
Tutto ciò non implica che l’Unione europea sia tutta  da buttar via. Va però vista per quello che è e non per quel che dice di essere.
In un’epoca caratterizzata da una pronunciata tendenza verso il gigantismo istituzionale,dominata da grandi entità politiche (Cina, India, USA, Russia) essa rappresenta un utile strumento di cooperazione fra Stati che, pur appartenendo alla stessa area geo-politica, non hanno maturato (né forse mai matureranno) una vera e propria vocazione federale. Stati che pur vivendo una stagione di profonda crisi, restano comunque riluttanti a fare il passo decisivo: quello di firmare il proprio certificato di morte per rinascere in uno Stato federale.
Insomma questa Europa è in ultimo una tragica finzione, un surrogato certo, ma di qualcosa che non c’è, una controfigura, ma di un attore che non  è mai stato scritturato.