martedì 30 aprile 2013

Lettere da Strasburgo. L'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa spiana la strada al protocollo addizionale n. 15

di Rosario Sapienza

Lo scorso 26 aprile, su rapporto della Commissione degli affari giuridici e dei diritti umani, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha espresso con l’ Opinione 283 (2013)   parere  favorevole alla adozione da parte del Comitato dei Ministri del progetto di protocollo addizionale n. 15 alla Convenzione europea dei diritti umani, elaborato dallo Steering Committee on Human Rights.

Si  tratta di uno dei primi risultati concreti di un processo di riforma del sistema della Convenzione, che  ha conosciuto un importante  momento di rilancio negli ultimi anni con le Conferenze di Alto Livello di Interlaken (2010), di Izmir (2011) e di Brighton (2012), ma che è in realtà in atto dalla fine degli anni novanta, quando il Protocollo addizionale n. 11 riformò il sistema dei ricorsi della Convenzione prevedendo  la possibilità per gli individui di adire direttamente la Corte europea dei diritti umani.

Da quando con il protocollo addizionale n. 11 il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stato riformato consentendo agli individui l’accesso diretto alla Corte, senza la mediazione della Commissione, ha acquisito crescente interesse il tema della ulteriore riforma del sistema, atteso che l’accesso diretto degli individui aveva determinato non solamente un numero sempre crescente di ricorsi, ma anche la pressante esigenza di un ripensamento del modus operandi della Corte e del suo sistema di ricorsi.

In particolare, diventa sempre più urgente definire meglio il complesso rapporto tra la Corte europea e le giurisdizioni interne degli Stati membri, dato che la competenza della Corte appare sempre di più come una parte di un sistema giudiziario unitario nel quale si integrano le competenze dei giudici interni e quella della Corte stessa.

Ciò ha fatto sì che sempre di più la Corte sia stata vista come un organo di tutela dei diritti umani all’interno di un sistema di garanzia di natura intrinsecamente costituzionale, nascente dalla rinnovata integrazione tra le competenze dei giudici interni e della Corte stessa, sistema che uscirebbe rafforzato proprio dalla previsione di un ricorso individuale direttamente indirizzato alla Corte europea.

Gli emendamenti alla Convenzione che hanno trovato posto nel progetto di Protocollo no. 15 sono di varia natura e incidenza. Tre sono di importanza più tecnica, come  la riduzione da sei a quattro mesi a partire dalla decisione interna definitiva del termine per proporre il ricorso alla Corte, l’abrogazione del diritto di veto che attualmente  le parti (ricorrente e Stato convenuto) possono esercitare quando una Camera della Corte decida di spogliarsi di un caso in favore della Grande Camera (art. 30 della Convenzione), la modifica del limite di età   per la eleggibilità dei giudici che viene portato a 65 anni (con la possibilità di portare a termine l’intero mandato di nove anni, e dunque arrivare a 74 anni, mentre oggi  i giudici rimangono in carica fino a 70 anni).

Le altre due modifiche sono, direi,  di maggior respiro e riguardano entrambe  il complesso problema dell’equilibrio tra il ricorso interno e il ricorso internazionale. Una rappresenta una modifica di un recente emendamento dell’articolo 35 della Convenzione in materia di ammissibilità dei ricorsi alla Corte voluto dal protocollo addizionale  n. 14 (entrato in vigore nel 2010)  e consiste nella eliminazione della previsione secondo cui la Corte non può rifiutare di esaminare un ricorso quando esso non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno. Questa previsione venne inserita dal protocollo n. 14 per evitare che venissero respinti ricorsi che non avevano ricevuto adeguata trattazione al livello interno (così costruendo il ricorso internazionale come una specie di ultima spiaggia per un ricorso interno che non fosse stato adeguatamente trattato). Con la riforma prevista dal Protocollo n. 15, secondo quanto richiesto dalla Dichiarazione di Brighton, questa limitazione viene eliminata e dunque la Corte potrà muoversi con maggiore libertà, sempreché comunque la violazione dedotta non abbia causato un pregiudizio grave al ricorrente o non coinvolga questioni di notevole interesse per la protezione dei diritti dell’uomo. Si tratta di un primo passo verso il riconoscimento alla Corte di un potere (che alcuni vorrebbero addirittura discrezionale) di scegliere i ricorsi sui quali pronunziarsi.

La seconda modifica riguarda invece l’inserimento nel Preambolo della Convenzione di un esplicito riferimento alla dottrina del margine d’apprezzamento statale e al principio di sussidiarietà. Secondo il disposto dell’articolo 1 del protocollo n. 15 infatti:

At the end of the Preamble to the Convention, a new paragraph shall be added, which shall read as follows:

“Affirming that the High Contracting Parties, in accordance with the principle of subsidiarity, have the primary responsibility to secure the rights and freedoms defined in this Convention and the Protocols thereto, and in doing so enjoy a margin of appreciation, subject to the supervisory jurisdiction of the European Court of Human Rights established by this Convention”

nel quale, come si vede, l’idea della sussidiarietà del sistema della Convenzione viene posta in relazione sia con la primaria responsabilità degli Stati nella tutela dei diritti enunciati e garantiti dalla Convenzione, sia con  il riconoscimento del margine d’apprezzamento del quale gli Stati godono nell’assolvimento di questa primaria responsabilità, beninteso sotto la supervisione della Corte. Una formula complessa, come si vede, che cela dietro la sua bella e rassicurante struttura sintattica (nella quale pare che tutto si tenga in forza della cogenza di una stringente consecutio logica) anni di stratificazione giurisprudenziale alla ricerca proprio di questo delicato equilibrio.

La previsione relativa al margine d’apprezzamento però appare ispirata  non tanto all’esigenza di una consacrazione ufficiale nel testo della Convenzione della nota dottrina interpretativa elaborata dalla Corte nel corso della sua giurisprudenza, quanto piuttosto alla volontà, condivisa da molti Stati, di indurre la Corte a non andare oltre ….  il margine d’apprezzamento nell’esercizio dei suoi poteri di controllo, cosa alla quale, in verità, si è sempre più spesso indotta la Corte. Mi pare infatti che la Corte abbia da qualche tempo mutato il suo modus operandi concedendo sempre meno al margine d’apprezzamento e muovendo invece decisamente verso la costruzione di standards europei, starei per dire a tutti i costi. Sempre più spesso la Corte europea identifica situazioni nelle quali potrebbe riconoscere agli Stati un margine d’apprezzamento anche ampio, per poi concludere invece che l’esistenza di questo margine d’apprezzamento non le impedisce di considerare il comportamento statale in violazione della Convenzione.

Piccoli passi, come si vede, alla ricerca di un difficile equilibrio tra momento internazionale e momento interno nella tutela dei diritti dell’uomo nel sistema della Convenzione di Strasburgo. Adesso occorrerà attendere la ratifica da parte di tutti gli Stati parti della Convenzione per vedere operare il protocollo n. 15 e, d’altra parte, attendere gli ulteriori sviluppi del lavoro in corso in seno allo Steering Committee on Human Rights.