lunedì 25 marzo 2013

Fondo salva Stati e Fiscal Compact. Finis Europae?


di Rosario Sapienza
Sono stato invitato dalla SVIMEZ a prender parte al Seminario su “Pareggio di bilancio, Fiscal Compact e Diritti sociali”  tenutosi a Roma lo scorso 15 marzo 2013. Nel mio intervento, polemicamente intitolato “Fondo salva Stati e Fiscal Compact. Finis Europae?” ho affermato tra l’altro:
“Il primo effetto delle misure recentemente  adottate dall’Unione europea in relazione ai disavanzi eccessivi e alla parità di bilancio è stato quello di aver complicato in maniera credo irreversibile il modello di riferimento quanto alla governance delle istituzioni. Ci troviamo infatti di fronte alla compresenza di  distinti modelli:
quello francamente internazionale dello European Stability Mechanism (il c.d. Fondo salva Stati) che per quel che se ne comprende da ora diventerà una vera e propria organizzazione internazionale con sede a Lussemburgo;
quello intergovernativo a integrazione differenziata del Fiscal Compact che, com’è noto, non ha potuto realizzarsi attraverso una revisione dei trattati, ed è dunque  un qualcosa che con certezza non si cala appieno nella dimensione comunitaria governata dalle istituzioni comuni;
quello comunitario dei vari Packs  proposti dalla Commissione.
Si dirà che nihil sub sole novi perché l’Unione ci ha abituato alla coesistenza di assetti  ispirati a differenti modelli, nel cui contemperamento anzi qualcuno ha visto la cifra della sua stessa originalità.  Io stesso ammetto di avere da sempre preferito e auspicato una integrazione europea a più livelli, convinto come sono che la storia stessa dell’Europa impedisca il salto nel vuoto verso uno Stato federale che non c’è e forse non ci sarà mai. In luogo di questa improbabile unificazione federale ho sempre preferito, dicevo, un concorso di strategie, anche in differenti contesti istituzionali e con differenti modalità. Insomma l’Europa è unita e lo sarà sempre di più, ma questa sua unità è più della semplice Unione europea.  Comprende, oltre alle differenti strategie di integrazione e di cooperazione in atto all’interno dell’Unione, anche, ad esempio, la dimensione della protezione regionale dei diritti dell’uomo attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cooperazione internazionale nell’area del Mediterraneo, le esperienze di cross-fertilization nel dialogo tra le corti e via dicendo.  Ma trovo singolare e francamente allarmante che proprio in ciò che questa Europa ha di più federale, e cioè la moneta unica, si debba ricorrere a strumenti così differenziati. L’impressione è  infatti che i differenti strumenti difficilmente possano essere ricondotti a una strategia coordinata  se non attraverso una continua opera di mediazione e negoziato che mostra, una volta per tutte, la fine dell’Unione come disegno istituzionale diverso e distinto dagli Stati che la compongono.  Lo stesso Joschka Fischer, il paladino della Costituzione europea, già in una intervista del 2011 alla Zeit, ne prendeva atto con disincanto, invitando a dimenticare l’Unione europea a 27, che sarebbe stata presto sostituita dagli Stati in condizioni di mantenere e salvaguardare l’euro (Cfr. Tina Hildebrandt, “Vergesst diese EU”, Die Zeit, 10 novembre 2011).
Aggiungo però un ulteriore elemento: tutto ciò implicherà una frammentazione e parcellizzazione della compagine degli Stati in Europa, nel senso  che si creeranno inevitabilmente delle cerchie diverse di Stati a secondo della gradazione di obblighi che intenderanno assumersi.
E avrà conseguenze importanti anche per i livelli di garanzia dei diritti sociali, come è stato peraltro già illustrato da coloro che mi hanno preceduto.  Perché non tutti gli Stati saranno in condizioni, visto che avranno vincoli differenti, di assicurare gli stessi livelli di garanzia dei diritti sociali, non solo per questioni economiche evidenti ma anche perché il quadro complessivo dei loro obblighi li potrà indurre a dover accorciare, tagliare, comprimere in alcuni casi e invece altri Stati potranno permetterselo. Verrà dunque meno quella coesione sociale, economica e territoriale che faticosamente si è fin qui cercato di costruire.
 Questo determinerà effetti importanti. Quali? La prima cosa che mi viene in mente è che si riprenderà a migrare da un Paese all’altro. Il che, intendiamoci, non è un fatto così tremendo, è un fatto quasi fisiologico. Negli Stati Uniti  che hanno un’esperienza federale molto, molto più matura della nostra, è del tutto normale che una persona nasca in uno Stato e poi decida di stabilirsi in un altro, dipende da quello che ritiene più opportuno fare.
Noi italiani, però, abbiamo una memoria collettiva in cui l’esperienza dell’ emigrazione è qualcosa di negativo, è un estremo rimedio all’indigenza,  siamo abituati a parlare ad esempio della fuga dei cervelli, viviamo e vivremo tutto ciò in un contesto di negatività, quasi come un lutto. Prepariamoci".